Abba Sisoes disse: Cerca Dio, ma non cercare dove abita!
Fra il III e il V secolo dopo Cristo nacque, visse e declinò il fenomeno del monachesimo egiziano, i cosiddetti “padri del deserto”. Gruppi di persone e singoli individui presero ad allontanarsi dalle città per vivere ritirati nel deserto; la loro era una vita fatta di penitenza e preghiera, tentativo di vivere a pieno il messaggio del Cristo.
Il gesto che veniva richiesto all’aspirante asceta era la rinuncia totale ad ogni bene terreno, secondo il detto evangelico: “Se vuoi essere perfetto va, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21).
Come si narra nella Vita Antonii, lo stesso Antonio il Grande (250 – 356 d.C.), padre di tutti i monaci e iniziatore dell’ascetismo egiziano, sentì inequivocabilmente rivolta a lui questa parola del Vangelo. Rispondendo a questo richiamo, Antonio, e molti altri dopo di lui, vissero nell’anelito della vita in Dio, nel ricordo costante della morte e nella lotta contro le passioni del corpo e dello spirito.
Era indispensabile rinunciare volontariamente a questa nostra vita e avere sempre negli occhi e nel cuore l’altra, quella in Dio.
Ma quali erano i beni terreni che dovevano essere lasciati?
In questo apoftegma, narrato da Antonio ma che ha come protagonista un altro Padre, si ha l’esatto gusto di cosa fosse considerata vera rinuncia.
Abba Antonio disse: Una volta abitavo accanto ad Abba Arfat e gli si presentò una vergine che disse: “Padre, ho digiunato duecento settimane, ho imparato l’Antico e il Nuovo Testamento. Che cosa mi resta ancora da fare?”.
L’anziano rispose: “Che frutto ne hai ricavato? Per te il disprezzo è come l’onore?”
Rispose “No”.
“Consideri la perdita come il guadagno? Gli estranei come i parenti secondo la carne? L’indigenza come l’abbondanza?”
“Proprio no!”
Allora l’anziano disse: “Dunque non hai digiunato di sei giorni in sei giorni e non hai imparato né l’Antico né il Nuovo Testamento, ma inganni te stessa. Va, mettiti all’opera, perché non hai niente”.
È evidente da questa storia che la vera rinuncia non consisteva nelle mortificazioni esteriori né nell’ottusa conoscenza. Ciò che andava abbandonato era l’amor proprio, perché venisse sostituito da un’altra specie di Amore, capace di comprendere tutto e tutti dentro il suo sguardo.
Cercare la vita nel deserto significava essere in prima persona quel deserto.
La costante preghiera rivolta a Dio era il tentativo di rendersi degni della Sua Presenza e della Sua Vita. Quando Dio, questa forza, sfiora con la Sua Grazia, l’asceta capisce che non c’è niente a cui rinunciare. Esiste solo Lui.
Così il monaco lasciava tutto. Anche il proprio nome. Una nuova nascita, il Battesimo in Cristo. Tanto che di molti Padri non si riesce a rintracciare la reale identità, come nel caso di questo Serapione, che potrebbe essere l’uno o l’altro dei monaci che portavano questo nome.
Un giorno, ad Alessandria, Serapione incontrò un povero intirizzito dal freddo. Allora disse tra sé: “Come mai io che passo per un asceta sono rivestito di una tunica, mentre questo povero, o piuttosto Cristo, muore di freddo? Certamente, se lo lascio morire, sarò condannato come omicida, nel giorno del giudizio”. Allora si spogliò come un valoroso atleta e diede il suo vestito al povero; quindi si sedette con il piccolo Vangelo che portava sempre sotto il braccio. Passò una guardia e, vedendolo nudo, gli chiese:” Abba Serapione chi ti ha spogliato?”. Mostrando il suo piccolo vangelo, rispose: “Ecco chi mi ha spogliato”. Mentre se ne ripartiva, incontrò un tale che era stato arrestato per un debito, perché non aveva da pagare. Allora l’immortale Serapione vendette il suo piccolo vangelo e pagò il debito di quell’uomo. Quindi ritornò nella sua cella nudo. Quando il suo discepolo lo vide nudo, gli chiese: “Abba dov’è la tua tunica?”. L’anziano gli disse: “Figlio, l’ho mandata là dove ne avremo bisogno”. Il fratello chiese: “Dov’è il tuo piccolo vangelo?”. L’anziano rispose: “In verità, figlio, ho venduto colui che mi diceva ogni giorno ‘Vendi quello che possiedi e dallo ai poveri’; l’ho venduto e dato via per avere più fiducia in lui, nel giorno del giudizio”.
L’asceta dei primi secoli della nostra era, in un’ottica inconcepibile per il nostro tempo, considera se stesso oggetto tra gli oggetti, materia senza esistenza se non visitata da quell’energia che in molti tempi e in molti luoghi è stata chiamata Dio.
Ed è in questo racconto meraviglioso che il senso della rinuncia si rende comprensibile al massimo grado. Niente può essere tralasciato: tutto quello che ostacola il farsi della Parola, fosse anche il libro che la contiene, deve essere abbandonato. Solo rinunciando alla materia che lo porta, come in un’esplosione, la Parola può farsi finalmente nutrimento universale. Non c’è niente da possedere; esiste solo una vita che chiama e la preghiera di poterla ascoltare.
Testo di Daniele Magelli
Le citazioni in corsivo sono tratte da: AA.VV., Detti editi e inediti dei Padri del deserto, Edizioni Qiqaion 2002